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venerdì 26 agosto 2011

RAPPORTI. È volontario un italiano su dieci

Nonostante la crisi nel 2010 si è sforato il 10%. E sono riprese anche le donazioni.




Il volontariato cresce nonostante la crisi. E nel 2010 è arrivato a quota 10%. Il dato emerge dall’indagine annuale “Aspetti della vita quotidiana" svolta dall’Istat su un campione di 19 mila famiglie (49 mila persone). L'analisi della sezione dedicata alla partecipazione sociale è stata scritta dal direttore della Fondazione Volontariato e Partecipazione Riccardo Guidi ed è scaricabile in versione integrale dal sito della Fondazione. Eccone una sintesi.

Un trend in crescita

Nel decennio 2001/2011 le persone che avevano svolto attività di volontariato almeno una volta l'anno sono cresciute costantemente: erano l’8,4% nel 2001 e sono arrivate, con una crescita costante, al 9% del 2009 e nel 2010 hanno raggiunto il 10 per cento pulito pulito.
Un dato interessante è che negli utlimi anni sono sempre più i maschi a partecipare ad attività di volontariato, anche se le femmine cominciano prima: tra i 14 e i 24 anni i tassi di volontariato delle femmine sono di gran lunga superiori a quelli dei loro coetanei. Anche questo è, per Guidi, un segnale degli «effetti negativi sulla partecipazione ad attività di volontariato dell’assenza di adeguate politiche di sostegno alla famiglia e alla genitorialità in Italia».
Quanto all'età, i maggiori livelli di volontariato della popolazione italiana si osservano nelle fasce di età attiva (14-64), mentre crollano dopo i 64 anni, soprattutto per le donne. In termini di prospettiva, in vista del futuro Anno Europeo dell’invecchiamento attivo, materiale su cui rifelttere.
Soprattutto a fronte della crisi occupazionale che l’Italia sta vivendo, è interessante prendere in considerazione l’evoluzione dei livelli di volontariato rispetto alla condizione occupazionale delle/degli Italiane/i. A questo proposito si può notare che i maggiori livelli di partecipazione ad attività di volontariato si osservano per gli/le occupati/e con status occupazionali più alti (dirigenti, imprenditori, liberi professionisti) ed i minori livelli per coloro che hanno status occupazionali più marginali (casalinghe, persone in cerca di occupazione e operai/ie).

Un fenomeno municipale più che metropolitano

Il Nord si conferma la macro-area territoriale con tassi di volontariato maggiori, seguita dal Centro, mentre le Isole ed il Sud si confermano con i livelli minori, sebbene in tutte le aree in crescita rispetto al 2009. Nel 2010 i differenziali territoriali comunque si approfondiscono.
Dall’incrocio tra livelli di partecipazione ad attività di volontariato e ampiezza del Comune di residenza esce confermata la tendenza, già osservata nel 2009, sulla maggiore propensione all’attività di volontariato per coloro che vivono nei piccoli e piccolissimi, collocati fuori delle aree metropolitane. Il volontariato sembra dunque un fenomeno più tipico della piccola Italia municipale che della grande Italia metropolitana.

Riprendono le donazioni

Nel 2010 la quota di Italiani/e che ha sostenuto finanziariamente un’associazione è cresciuta rispetto al 2009 e al 2008, attestandosi al 17,8% e tornando dunque al livello precedente del “crollo” del 2008 (quando si era raggiunto il livello minimo osservabile dal 2003).
Le differenze regionali sono notevoli, ma si articolano di più rispetto alla classica differenziazione per macro-aree territoriali (troviamo tassi di finanziamento associativo sopra il 20% in Trentino-Alto Adige, Toscana, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Lombardia, Valle d’Aosta e Sardegna). Le differenze di età si attenuano con una maggiore “tenuta” da parte degli over-64 anni.

Il commento

Dai segnali che emergono dalla serie storica, sembra esserci - dice Guidi - «un lento ma significativo rinvigorimento dei livelli della partecipazione alle attività di volontariato in Italia. Da questo punto di vista, chi si aspettava che la crisi avrebbe incentivato un ritiro nel privato sembra essere stato smentito». E contemporaneamente l’esiguità della partecipazione sociale più politicamente orientata (advocacy e partecipazione sindacale attiva) cosatringe a chiedersi «se questa circostanza non possa essere interpretata come un nuovo sostegno alla tesi della caduta di ‘politicità’ della partecipazione sociale in Italia».
Quanto alla partecipazione, «sembra esistere in Italia un serio problema distributivo nelle opportunità della partecipazione: chi è “socialmente centrale” partecipa di più di chi è “socialmente marginale”. Si cela in questa tendenza un particolare aspetto di “avvitamento” della società italiana: considerando che dalla partecipazione sociale transita una parte non banale di acquisizione di competenze, capitale sociale e possibilità di rivendicazione, una siffatta distribuzione delle opportunità di partecipazione potrà rafforzare i forti e indebolire i deboli».

giovedì 25 agosto 2011

Londra. La salute in mano alle coop


Un articolo sulla Bbc cita l'Italia come modello

«Vogliono trasformare il sitema sanitario inglese nella più grande impresa sociale del mondo». Così dice l'articolo di Victoria King apparso ieri sulla Bbc sulla svolta in corso in Gran Bretagna, che punta ad affidare a cooperative il sistema sanitario.

«Servizio pubblico non coincide con settore pubblico», dice Geoff Walker, direttore del Sandwell Community Trust (nela foto). La sua è un'impresa sociale che gestisce servizi per adulti e minori dal 1997 e con 475 addetti si prende cura di 700 persone. È esattamente quello che il governo ha in mente per la sanità, dentro il progetto di Big Society.

Le cooperative certo non sono nuove nemmeno in Inghilterra. Quel che è nuovo è l'intervento massiccio nel settore sanitario. Una che sta lavorando bene è, per la KING, Ripplez, diretta dall'infermiera e ostetrica Chirs Tully, che lavora con le mamme teenager. Ripplez sta, nelle sue stesse parole, «crescendo veloce come un fungo» e ha già attratto diversi investimenti filantropici. «Possiamo decidere come usare i soldi, e coinvolgiamo molto i nostri genitori», dice.

L'articolo cita l'Italia come modello: «Ci sono più di 7mila cooperative impegnate nell'assistenza di anziani e disabili o lavoro per ex detenuti».

lunedì 22 agosto 2011

Il monito di Napolitano: presente angoscioso, ci attendono sfide ardue. Basta debolezze sull'evasione


Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, domenica 21 agosto 2011, durante il discorso al meeting di Rimini (ANSA/ PASQUALE BOVE)

Chiede uno sforzo maggiore contro l'evasione fiscale. «Basta assuefazioni e debolezze con chi evade il fisco».

E sprona la politica a fare scelte di lungo respiro perché il presente «è angoscioso», ma il futuro lo è ancora di più e riserva «sfide ardue, profonde e dall'esito incerto». Da Rimini, dal meeting di Comunione e liberazione, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, torna così a chiedere più coraggio nell'affrontare la crisi e una svolta per far ripartire la locomotiva nazionale.

Presente angoscioso, abbiamo il dovere di decisioni immediate
Al pubblico ciellino Napolitano consegna innanzitutto una lucida disamina della difficile congiuntura. «Da quando l'Italia e il suo debito pubblico sono stati investiti da una dura crisi di fiducia e da pesanti scosse e rischi sui mercati finanziari, siamo immersi in un angoscioso presente, nell'ansia del giorno dopo, in un'obbligata e concitata ricerca di risposte urgenti», ammonisce il presidente della Repubblica. «A simili condizionamenti, e al dovere di decisioni immediate - puntualizza Napolitano - non si può naturalmente sfuggire. Ma non troveremo vie d'uscita soddisfacenti e durevoli senza rivolgere la mente al passato e lo sguardo al futuro».

Ci attendono sfide ardue e profonde dall'esito incerto
Nel nostro futuro cammino, prosegue, il capo dello Stato, «abbiamo sfide e prove più che mai ardue, profonde e di esito incerto». E, per superarle, servono responsabilità e massimo impegno. «Dinanzi a fatti così inquietanti, davanti a crisi gravi, bisogna parlare il linguaggio della verità». Non fa nomi il capo dello Stato ma è implicito il richiamo a quanti, nel Palazzo, hanno disatteso il dovere della chiarezza sulla gravità della crisi. «Il linguaggio della verità non induce al pessimismo ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza». E qui, una domanda: «abbiamo noi, in Italia, parlato in questi tre anni il linguaggio della verità? Lo abbiamo fatto abbastanza tutti noi che abbiamo responsabilità nelle istituzioni, nella società,nelle famiglie, nei rapporti con le giovani generazioni? Siamo attenti: dare fiducia non significa alimentare illusioni». Perché, prosegue il capo dello Stato, «non si dà fiducia e non si suscitano le reazioni necessarie minimizzando o sdrammatizzando i nodi critici della realtà, ma guardandovi in faccia con intelligenza e con coraggio».

S'impone svolta per la crescita, adesso ricette di lungo respiro
Quale sia la ricetta per uscire dall'impasse il capo dello Stato lo dice senza troppi giri di parole. «Si impone un'autentica svolta per rilanciare una crescita di tutto il Paese, Nord e Sud insieme. Una crescita meno diseguale». Una svolta che passa attraverso scelte profondamente meditate e condivise. «Occorre più oggettività nelle analisi, misura nei giudizi, più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche», occorrono «scelte non di breve termine ma di lungo e medio respiro». Un cambio di rotta che significa aprire a vere riforme. In particolare Napolitano cita quella della giustizia. «In queste settimane, sospinto da alcuni impulsi generosi - dice - si sta prospettando in una luce più positiva il tema della riforma in funzione solo dell'interesse nazionale e del concreto funzionamento della giustizia. Anche perchè alla visione del diritto e della giustizia sancito in Costituzione ripugna la condizione attuale delle carceri e dei detenuti».

mercoledì 17 agosto 2011

E SE IL TERZO SETTORE DIVENTASSE IL PRIMO?

È l'ambito preferito da giovani e donne che sperimentano nuovi modelli di business



di Francesco Perrini, professore ordinario e titolare della Sif chair of social responsibility della Bocconi

Che il sociale stia assumendo un’importanza crescente nei sistemi economici attuali è innegabile. Con 250 mila organizzazioni per un’entrata complessiva di 4,5 miliardi di euro, il terzo settore è oggi il più vasto ambito lavorativo in Italia, con 4 milioni di operatori di cui 700mila retribuiti e 3,3 milioni di volontari, e forse l’unico in crescita. Un fenomeno in evoluzione non soltanto numericamente, ma in termini di modelli adottati, di risultati raggiunti e di interventi realizzati. Se da un lato i dati quantitativi dimostrano il rafforzamento della consapevolezza che l’intervento privato in questioni di rilevanza sociale sia necessario, dall’altro stiamo assistendo a un radicale ripensamento delle logiche sottostanti, improntato a una ricerca crescente di sostenibilità, robustezza economica, capacità di resistere al lungo periodo massimizzando gli obiettivi sociali. Non è un caso che, sempre più spesso, e a differenza del passato, termini quali imprenditorialità e benessere sociale vengano usati insieme, piuttosto che in contrapposizione. Non è un caso che lo stesso legislatore abbia sancito la legittimità di una formula imprenditoriale innovativa, l’impresa sociale (legge 118/2005), finalizzata ad accelerare la progressiva managerializzazione di tale settore, superando le forme giuridiche disponibili. Sull’onda dell’entusiasmo per le potenzialità innovative, di sviluppo economico e crescita sociale, il movimento della social entrepreneurship ha assunto una dimensione globale, suscitando interesse da parte del mondo accademico, imprenditoriale business, non profit e politico.

Pur trovando le sue radici nel non profit e nell’importanza di riorientare il terzo settore in ottica manageriale, il dibattito più recente in materia di imprenditoria sociale si attesta su una visione non limitata alla tradizionale contrapposizione tra profit e non profit, quanto piuttosto focalizzata sul contenuto e sul modello di gestione dell’iniziativa intrapresa. La forma giuridica scelta passa in secondo piano, subordinata all’obiettivo di generare un cambiamento sociale attraverso l’implementazione di un modello di business sostenibile nel tempo, innovativo e in grado di generare impatti apprezzabili.

Tale fenomeno è al contempo causa e conseguenza di una dinamica di rinnovamento che ha stimolato soprattutto l’imprenditoria giovanile e femminile. Numerose evidenze segnalano tale tendenza, come la nascita di un movimento di giovani start upper in giro per il mondo. Dalle fondazioni di supporto all’imprenditorialità sociale tipo Ashoka, Skoll, ai fenomeni di sviluppo di The Grameen Creative Lab per il lancio di Social Business, alla Social Business Plan Competition. O ancora gli incubatori sociali, come THE HUB che di recente ha aperto anche a Milano. Si tratta di una rete internazionale di spazi fisici dove imprenditori e imprenditrici sociali, creative e professioniste possono accedere a risorse, lasciarsi ispirare dal lavoro di altri, individuare opportunità di mercato e costruire quel bagaglio di esperienze che li aiuteranno a cambiare Milano e il mondo. Oppure si può ricordare come tanti giovani e in particolare donne hanno fondato e gestiscono cooperative per il riutilizzo delle terre sequestrate alla mafia o ancora l’impegno della presidente Monica Lucarelli dei Giovani Industriali di Roma che si batte perché venga dai giovani imprenditori un esempio di etica per moralizzare l’economia pubblica. Il tutto combinando l’attribuzione di risorse economiche e non e di competenze organizzative e manageriali.

Ne consegue, per gli studiosi, la tendenza a spingersi oltre le tradizionali categorie d’analisi, per cogliere l’eterogeneità delle esperienze in atto, distinguendo le organizzazioni sociali nate dalla capacità dei cittadini di auto-organizzarsi attorno a una causa di comune interesse (civil society organization) da veri e propri service provider, più vicini per logiche e pratiche al mondo business, sebbene contraddistinti da obiettivi di creazione di valore sociale.